La cometa De Vico
(Nuovo Orione, Gennaio 1996)
Non lo si può negare. Le comete hanno sempre esercitato un certo fascino nel mondo dell'astronomia professionale e amatoriale. Sarà questo, forse, un retaggio del timore ancestrale che accompagnava la loro comparsa; o forse l'alone di mistero che circonda questi oggetti, i quali di sovente appaiono all'improvviso in una qualunque parte del cielo e si muovono lungo le traiettorie più disparate quasi a sfidare l'armonia che regna fra i corpi celesti di cui siamo maggiormente abituati a seguirne gli spostamenti: Luna, pianeti, asteroidi. Non si dimentichi che lo stesso Galileo, raccogliendo l'eredità aristotelica, relegava le comete nel mondo sublunare (e quindi non le riteneva corpi celesti), proprio in relazione al loro enigmatico e imprevedibile comportamento. Se è vero che la maggior parte delle comete scoperte sono deboli e poco appariscenti, può però capitare che a volte ne sbuchi fuori una brillante, abbastanza per polarizzare l'attenzione degli appassionati, com'è capitato nei mesi di settembre-ottobre scorsi con la De Vico.

Un passaggio saltato

Immagine di Francesco de Vico realizzata
dall'artista umbro Domenico Bruschi
Questa cometa venne scoperta il 26 febbraio 1846 da padre Francesco De Vico (Macerata 1805 - Londra 1848), astronomo direttore dell'Osservatorio del Collegio Romano, lo stesso che 11 anni prima aveva ritrovato in cielo la storica cometa di Halley. L'astro appariva di quinta grandezza e mostrava una coda piuttosto corta. Il calcolo degli elementi orbitali aveva fornito un periodo incerto, compreso tra i 70 e i 75 anni che avrebbe portato la sua riapparizione — tenuto debitamente conto delle perturbazioni gravitazionali esercitate su di essa dai pianeti, soprattutto Giove e Saturno — in un intervallo temporale a cavallo tra il 1919 e il 1925. Le comete sono infatti corpi di piccola massa (meno di un decimiliardesimo della massa terrestre!), anche se le dimensioni medie del nucleo, dove praticamente si concentra tutta la materia, può superare la grandezza del Monte Bianco; ciò è sufficiente a rendere le loro orbite particolarmente instabili, soprattutto in vicinanza dei pianeti giganti del sistema solare, e a far così fluttuare anche di molti punti percentuale la durata del loro periodo di rivoluzione calcolato in una determinata epoca.
La cometa, però, non venne riosservata durante il successivo passaggio, presumibilmente a causa delle particolari condizioni geometriche e/o cinematiche createsi fra il Sole, la Terra e la stessa cometa. Fu invece riscoperta per opera dei giapponesi V. Naka­mura, M. Tanaka e S. Utsuno­miya il 17 settembre 1995 mentre esploravano la zona della volta celeste usualmente percorsa dalle cosiddette sun grazers, comete che sfiorano il Sole (donde il nome) come la celebre Ikeya-Seki apparsa nell'ottobre del 1965 e che proprio per questo possono divenire particolarmente brillanti. La De Vico, al momento della scoperta, era un oggetto di settima grandezza e non sorprende quindi che sia stata trovata col semplice ausilio di binocoli. In base alle nuove e più accurate osservazioni, si sono potuti affinare gli elementi orbitali che hanno permesso di fissare all'8 aprile 1922 la data del precedente e inosservato passaggio al perielio nonché quella del successivo, avvenuto il 6 ottobre scorso.

Qualche semplice calcolo
Proviamo adesso, giusto per divertimento, a eseguire qualche semplice conto per determinare a che distanza dalla Terra si trovava la De Vico al momento del suddetto transito (si clicchi sulla figura a sinistra). Innanzi tutto, una volta noto il periodo orbitale, valutato in anni 74,357, si può trovare immediatamente la lunghezza del semiasse maggiore dell'orbita della cometa sfruttando la terza legge di Keplero; è sufficiente, cioè, cercare il risultato dell'espressione (74,357)3/2 per ottenere la lunghezza cercata in unità astronomiche. Moltiplicando il valore trovato per la eccentricità dell'orbita, pari a 0,962734 UA, si avrà la distanza del Sole — situato per definizione in uno dei due fuochi dell'ellisse — dal centro dell'orbita; quest'ultimo dato verrà infine sottratto dal valore del semiasse maggiore precedentemente calcolato in modo da ottenere la distanza perielica della cometa. A questo punto, supposto per comodità e, soprattutto, per brevità che la distanza Terra-Sole sia esattamente di una unità astronomica (e considerando il periodo dell'anno in questione la supposizione è più che legittima), sapendo che al momento del passaggio l'elongazione della cometa era di 39° (si poteva determinarla direttamente segnandone la posizione su un atlante), usando le Tavole Trigonometriche e applicando una volta il noto teorema di Pitagora, ecco che è possibile determinare in prima approssimazione la distanza che cercavamo, la quale, tramite i dati sopra esposti, risulta essere di 0,9726 unità astronomiche, ossia di circa 145 milioni di chilometri (la figura esprime tutto questo in modo più formale ed elegante).
Questo calcolo forse un po' rozzo e che in primis non ha tenuto conto dei complicati sviluppi di formule di trigonometria sferica, non ha tuttavia condotto a un risultato sensibilmente diverso dalla realtà; la distanza vera dalla Terra ammontava a 0,9692 UA e cioè appena inferiore; come si può vedere lo scarto è solamente dello 0,3 per cento!
Un'altra cosa interessante può essere quella di determinare la temperatura della cometa mediante un calcolo molto semplice, per il quale si rimanda al riquadro intitolato "Quanto è calda una cometa?".
Fra i numerosi astrofili italiani ad aver puntato la propria strumentazione sulla De Vico non poteva certo mancare Sandro Baroni di Milano, assiduo osservatore di ogni sorta di fenomeni celesti e che ha all'attivo più di 50 dettagliate osservazioni cometarie. Le sue stime, effettuate dal cuore della città (!), hanno fornito precisi valori sulla magnitudine dell'oggetto, sul grado di condensazione della chioma, sulla lunghezza della coda e sull'angolo di posizione della stessa. Vittorio Zanotta, un altro nome ben noto nel campo cometario per essere stato lo scopritore della cometa 1991-GI, ha osservato la De Vico con un binocolo gigante Fujinon 25×150, valutando la lunghezza della coda in ben 2°,7 e stimandone la magnitudine tra la quinta e la sesta, in sostanziale accordo con le stime di Baroni.

Immortalare la De Vico
La De Vico è stata immortalata mediante le tre tecniche in uso presso gli astrofili: visuale, fotografica e CCD. L'osservazione visuale condotta al telescopio mostrava una bellissima chioma quasi perfettamente circolare di circa 6' di diametro con una marcata condensazione centrale dall'aspetto di una brillante stella sfocata. La coda, rettilinea e molto estesa, si estendeva ben oltre il campo degli oculari comunemente impiegati, ma poteva essere apprezzata in tutta la sua interezza solo nei binocoli tipo 20×80, ovvero nei piccoli telescopi muniti di oculari di lunga focale in modo da contenere gli ingrandimenti entro la trentina. L'osservazione telescopica è riassunta nei due disegni pubblicati nelle figure 1 e 2. Il primo è stato eseguito da S. Pesci utilizzando un dobsoniano da 35 centimetri interamente autocostruito (compresa l'ottica!), mentre il secondo, dello scrivente, è stato riprodotto impiegando assieme all'oculare un filtro Swan Band progettato per porre in evidenza l'emissione del carbonio molecolare (C2) presente nella tenuissima atmosfera cometaria. Non sempre però il contrasto aumenta sensibilmente utilizzando lo Swan Band, perché una cometa può essere molto ricca di polvere prodotta dalla frantumazione delle particelle meteoriche intrappolate nei ghiacci. Durante l'intensa attività cometaria nei pressi del perielio, questo pulviscolo può essere liberato in grandi quantità e la luce che diffonde è così in grado di arrivare a mascherare quella propria emessa dalla cometa per eccitazione delle molecole e/o dei radicali presenti nella chioma e nella coda. Nel caso della De Vico, invece, il filtro aumentava decisamente il contrasto, il che mostrava che la cometa era prevalentemente gassosa.

La De Vico fotografata da Massimo Uberti
Suggestiva è l'immagine di sinistra ottenuta da Massimo Uberti di Milano (un nome che speriamo veder presto legato alla scoperta delle novae galattiche) con uno strumento esclusivamente fotografico. Qui la coda sembra protendersi veramente verso l'infinito! Si nota, inoltre, una frammentazione della stessa con il ramo principale leggermente frastagliato, ma soprattutto non rettilineo, come appariva visualmente anche nei binocoli che ne fornivano una visione d'insieme. Le restanti Figure riproducono invece delle immagini non elaborate ottenute da R. Parisio tramite un CCD di nuova generazione, già noto da diverso tempo nel mondo dell'astrofilia, lo Starlight Xpress, fotografando direttamente ciò che appariva sul monitor. Qui addirittura, grazie all'eccezionale sensibilità del sensore, sono stati messi in evidenza getti che si dipartono dalla chioma in direzione della coda leggermente ricurva per l'interazione del campo magnetico solare. Anche nella coda infatti, come abbiamo accennato, sono presenti i radicali liberi, che, come si sa dalla chimica, sono elettricamente carichi; ma quando particelle cariche si muovono (e una cometa orbita ovviamente attorno al Sole!) generano un campo magnetico che va appunto a interferire con quello solare, foggiando la coda spesso nei modi più spettacolari. Questa, nell'illustrazione di destra, pare estendersi per oltre 3°.
La De Vico si sta ormai dirigendo verso lo spazio buio e freddo, allontanandosi sempre di più dall'astro diurno che in breve le farà perdere la sua veste smagliante. Solo chi ha potuto contemplarla in cielo in tenera età avrà forse occasione di rivederla al prossimo passaggio; gli altri dovranno contentarsi di rimirare le fotografie o i disegni, ma non si deve comunque parlare di rassegnazione: di comete ne vengono scoperte in continuazione, al ritmo medio di 5 o 6 all'anno, ed è possibilissimo che un giorno faccia la sua comparsa una di esse particolarmente luminosa, tale da offuscare la fama di questa. Il futuro è sempre pieno di sorprese e una di queste potrebbe chiamarsi Hale-Bopp, scoperta l'estate scorsa e che sembra... promettere bene. Ma ne riparleremo, forse, il prossimo anno.

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