Elementi di Ottica
Limiti Teorici e Pratici
Se valessero le leggi dell'ottica geometrica l'unico ostacolo tra l'osservatore e l'ingrandimento impiegato sarebbe costituito soltanto dal cattivo seeing: la sorgente puntiforme verrebbe infatti deviata continuamente — a causa della turbolenza atmosferica — dalla sua posizione originaria decine di volte al secondo, col risultato che l'immagine finale si verrebbe a focalizzare non in un punto ma in una macchia luminosa, tanto più grande quanto maggiore è l'agitazione dell'aria.
Tuttavia non sono poi così rare, specialmente nella nebbiosa Pianura Padana, le notti con aria tranquilla e comunque potremmo sempre pensare di eliminare del tutto gli effetti nocivi del seeing portando un telescopio automatizzato al di fuori dell'atmosfera (come nel caso dello HST). A titolo puramente illustrativo date un'occhiata alle due immagini di Saturno così come appaiono in un grande telescopio: quella a sinistra in una notte con seeing ottimo, a destra con seeing pessimo.
Tuttavia, anche nelle condizioni migliori vi sarebbero precise limitazioni. Se, infatti, l'immagine di una sorgente puntiforme fosse effettivamente un punto, dal momento che questo, geometricamente parlando, è un'entità priva di dimensioni, anche continuando a ingrandirlo resterebbe sempre un punto! Siccome un'immagine estesa come un pianeta può essere sempre immaginata come una matrice di punti, ripetendo il ragionamento per ciascuno di essi giungeremmo alla conclusione scontata — e paradossale — che non vi sarebbero limiti agli ingrandimenti utilizzabili. Immaginate un piccolo rifrattore da 60 mm utilizzato a 500 o (perché no?) 1000 ingrandimenti, come capitava di leggere in qualche pubblicità ingannevole alla fine degli anni '70! In realtà le cose stanno diversamente.
La dissertazione fatta in una delle pagine precedenti a proposito del potere risolutivo (PR) ci fa capire che nella pratica esistono precise limitazioni a quanto possiamo ingrandire un'immagine se vogliamo che questa non perda nitidezza.
Molti ottici o esperti sull'argomento fanno distinzione tra l'ingrandimento risolvente e quello cosiddetto massimo utile. Deve essere chiaro che si tratta di valori puramente indicativi, perché dipendono da una molteplicità di fattori, primo fra tutti l'acuità visiva dell'occhio. Può addirittura capitare che in certe condizioni questa distinzione venga meno. Vediamo di spiegarci.
Come già illustrato nella pagina riguardante l'occhio umano, sappiamo che questo presenta, mediamente, un PR attorno al primo d'arco. Si badi, però, che ciò non è sempre vero e comunque vale solo in visione diurna, ovvero in presenza di panorami ben illuminati, quando la visione avviene impiegando i fotoricettori chiamati coni. Tanto per fare un esempio, affermare che il proprio occhio ha un PR di un primo equivale a vedere distinti due puntini neri distanti 7 centesimi di millimetro su un foglio di carta bianco tenuto alla distanza di 25 centimetri. Non è un impresa facile. Ad ogni modo, anche supponendo che l'osservatore abbia una vista del genere, significa che se utilizza un telescopio da 12 cm, che ha un PR teorico di 1", e lo punta su una doppia stretta con separazione di 1", dovrà impiegare almeno 60 ingrandimenti per poter separare la coppia (in quanto in un primo vi sono 60 secondi). Questo è l'ingrandimento risolvente del telescopio, ossia l'ingrandimento al quale sono potenzialmente visibili tutti i particolari del soggetto inquadrato. Ricapitolando possiamo quindi affermare che l'ingrandimento risolvente è pari a circa 5 volte il diametro dell'obbiettivo in centimetri.
Il dobsoniano da 16" col quale osservavo una volta

In realtà la situazione non è così semplice, perché quando conduciamo osservazioni astronomiche su stelle od oggetti deboli, la parte retinica che lavora maggiormente è quella costituita dai bastoncelli, più sensibili alla luce, ma dotati di un potere risolutivo più scarso che non di rado sale sino a 3 o 4 primi (in condizioni di luce critica può anche essere molto di più). In questo caso, per separare una stellina con componenti sempre distanti 1" ma molto più deboli, può essere necessario spingere gli ingrandimenti sino 180 o addirittura 240. Ecco perché si sente spesso affermare che l'ingrandimento massimo utilizzabile è dato all'incirca da 2 volte il diametro dell'obbiettivo in millimetri; si tratta senza dubbio di una buona indicazione, ma va presa con le dovute cautele. Se vale per un 12 cm o, meglio ancora per un 60 mm, certamente non vale per un dobsoniano da 40 cm e tanto meno per uno di apertura ancora maggiore. Il perché è presto detto.
A prescindere dalla bontà ottica che in certi strumenti commerciali lascia un po' a desiderare, un 40 cm. dovrebbe avere un PR teorico di 3/10 di secondo d'arco. Ma nel nostro Paese, anche se più favorevole dal punto di vista meteorologico rispetto a quelli d'Oltralpe, raramente il seeing scende al di sotto di 1" e questo pone un limite naturale all'ingrandimento massimo utilizzabile, il quale raramente supera i 250 o 300 (poco più, quindi, di quelli ottenibili con un piccolo telescopio da 12 cm). E d'altra parte osservare con un seeing da 2" — abbastanza frequente sulle Alpi anche in condizioni di alta pressione — limita drasticamente le potenzialità di un grande strumento, che divengono equivalenti, al fine dell'osservazione di dettagli minuti, a quelle di un piccolo cannocchiale da 60 mm! In questo caso l'unica soluzione per avere un'immagine decorosa è quella di abbassare gli ingrandimenti, oppure di diaframmare eccentricamente l'apertura del telescopio. Da tutto questo se ne deduce che in molti casi l'ingrandimento massimo utilizzabile può addirittura essere inferiore a quello risolvente.
Un'altra importante limitazione all'uso di ingrandimenti elevati è data, nei telescopi riflettori e catadiottrici, dalla presenza dell'ostruzione centrale, assente invece nei rifrattori. La presenza del secondario, infatti, non fa che rinforzare gli anelli di diffrazione delle sorgenti puntiformi; buona parte della luce della centrica — la piccola zona centrale della figura di diffrazione — si trasferisce sugli anelli provocando in tal modo una caduta di contrasto dell'immagine sul fondo cielo. Questo fenomeno presenta ripercussioni evidenti sull'osservazione. Come abbiamo già prima accennato, un oggetto diffuso come un pianeta può essere infatti immaginato alla stregua di un reticolo di punti sorgente, ciascuno dei quali, a sua volta, è responsabile di una propria figura di diffrazione. Pertanto, a ognuno dei punti immagine si sovrapporranno gli anelli di diffrazione di quello adiacente, col risultato che l'immagine finale risulterà "impastata". Questo pone ovviamente un limite all'ingrandimento utile, indipendentemente dalla bontà delle ottiche o dal seeing.
Quando dunque si acquista o si costruisce un newtoniano bisogna fare attenzione a dimensionare in modo corretto il secondario: se questo è troppo grande l'immagine ne risulterà deteriorata; al contrario se fosse sottodimensionato sarebbe ancora peggio, perché in tal caso il telescopio non sarebbe più in grado di sfruttare la piena apertura dell'obbiettivo. Per controllare che questo eventuale inconveniente non si verifichi è sufficiente mettere a fuoco un oggetto molto lontano (in modo da minimizzare la corsa del focheggiatore), dopodiché rimuovere l'oculare e guardare direttamente nel portaoculare: se riuscite a vedere, riflesso sul secondario, l'intero primario con le clip di sicurezza allora vuol dire che lo specchietto deviatore non è sottodimensionato. Tuttavia, per ottenere a grandi linee un corretto dimensionamento del secondario ci si può avvalere di qualche semplice conto per il quale rimandiamo all'apposita pagina (vedi).

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